Una delle frasi più celebri e contrastate delle “massime” ereditate dalla letteratura latina è quella che recita: “Senectus ipsa est morbus” dello scrittore Publio Terenzio Afro (185 a.C-159 a.C.). La frase, nel suo crudo e sintetico significato, rapportata al periodo dello scrittore latino, può trovare una sua giustificazione, la vecchiaia in effetti, dal punto di vista biologico è il tramonto delle funzioni organiche perché la natura, come per tutti gli organismi viventi, ci ha costruiti come semplici esecutori di un ordine genetico: procreare per conservare la specie (sessualità) con l’aggiunta della aggressività (a volte troppa!); molte specie animali addirittura muoiono dopo l’accoppiamento perché per loro non ha senso continuare a vivere.
Per l’uomo fortunatamente (!?) non è così, e, anche interrompendo la capacità di riprodursi, continua a vivere, e qui entrano in gioco elementi che sono solo della natura umana: la cultura e la scienza medica. La ricerca scientifica ha allungato la vita e, in molti casi, ha consentito che questo prolungarsi dell’età biologica fosse accompagnato da un benessere fisico, permettendo così all’individuo di condurre una vita attiva anche in un’età dove, fino ad alcuni decenni fa, o perveniva la morte o l’invalidità fisica e mentale. A questo punto però altri fattori potrebbero dare credito alla massima latina: basta solo il benessere fisico per dire che la vita continua e la vecchiaia non è un male? O il male deve essere inteso come esclusione dalla società, allontanamento, perché non c’è spazio per attività produttive che ti facciano sentire parte integrante e utile della società?
Il consumismo ormai non è solo dell’occidente capitalista, nel suo evolversi tecnologico sta riducendosi sempre più la massa lavorativa, per cui, mentre da un lato i giovani premono per entrare nel mondo del lavoro, dall’altro, il grande potere finanziario tende a liberarsi dell’uomo lavoro (la famosa “quota 100” non è altro che il risultato inevitabile di questo fenomeno) sostituendolo con robot o con nuovi mezzi tecnologici che riducono sempre più la forza lavoro umana. Questo fenomeno riduttivo, connettendo la vecchiaia all’improduttività, fa si che i vecchi (direi gli anziani, visto l’allungamento della vita media) si sentono inutili in siffatta struttura socio-economica. Si vogliono lontani dal lavoro, ma nello stesso tempo, con il progredire delle scienze mediche e con il benessere fisico raggiunto con una maggiore accortezza per il proprio corpo, si sentono ancora attivi ed allora ci si domanda: a che cosa serve prolungare la vita se essa è regolata solo dai valori dell’efficienza e della produttività?
Per non cadere nella depressione e nell’isolamento psicologico, oltre che fisico, è necessario tenere la mente sveglia: dice James Hillman ne La forza del carattere (Adelphi, 2000): “alla mente le idee piacciono”, quindi bisogna attivarsi in tutti i modi per elaborare idee, smontarle, sostituirle, evitare di cadere nei luoghi comuni della vecchiaia, delle convenzioni, dei lamenti, bisogna crearsi degli hobby, collaborare agli eventi che quotidianamente investono la società: sentirsi interpreti e non spettatori del mondo che ci circonda e si evolve. Infine, dice l’autore, produrre idee è la giustificazione del vivere e finchè esercitiamo questo esercizio possiamo dire che la morte non è ipsa morbus.
Un piccolo accenno a noi rotariani: dobbiamo essere parte attiva della società, non solo attraverso l’amicizia, che già di per se è un antidoto alla vecchiaia, ma come membri attivi di processi di aggregazione per sviluppare idee utili al benessere sociale.
Dice Daniel Siegel dell’Università di Los Angeles in “mappe per la mente”: “il benessere trae origine sia dalle connessioni sinaitiche presenti nel nostro corpo, sia dalle connessioni relazionali con gli altri e con il mondo”. Sotto questo aspetto quindi, noi rotariani siamo immortali, per cui viva il Rotary usque ad mortem! (quanto più lontano possibile).
Pasquale Simonelli
