Il conflitto russo-ucraino è uno scontro politico, diplomatico e militare iniziato “de facto” dal febbraio 2014 e che dal febbraio 2022 vede fronteggiare le truppe regolari dei due Paesi dell’Europa orientale.
Ma il conflitto armato russo-ucraino rivela cause remote, arriva da lontano: dal 1991, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, o forse, dal 1989, dalla caduta del muro di Berlino. O ancora da più lontano.
Un’aggressione improvvisa, violenta, sanguinaria, ingiustificata, quella di Mosca, che non risparmia nessuno, nemmeno donne e bambini, né strutture sanitarie, assistenziali ed educative.
Solo adesso il presidente Putin ordina una tregua per il Natale ortodosso, per il 6 e 7 gennaio, su appello del patriarca russo Kirill, che invoca “Tregua in Ucraina per il Natale ortodosso”.
Ma il presidente Zelensky boccia tale proposta, ritenendola strumentale, poco credibile, tesa a fare da copertura per fermare le avanzate ucraine nella regione orientale del Donbass e a guadagnare tempo per riorganizzarsi militarmente.
Il presidente ucraino ha dichiarato che la guerra “finirà o quando i vostri soldati se ne andranno o quando li butteremo fuori noi”.
“Con l’Ucraina fino alla vittoria”, abbiamo sentito ripetere spesso in questi mesi da Zelensky, che non si fida delle intese ambigue, né delle esitanti vie diplomatiche.
Ma se la vittoria è impossibile?
Quanti altri morti (sono già centinaia di migliaia) dobbiamo ancora contare, al di là dei danni materiali, ormai incalcolabili?
Sino ad oggi, anche gli insistenti accorati appelli alla pace di papa Francesco sono caduti nel vuoto, anche se flebili spiragli di luce sembrano intravedersi in fondo al tunnel.
Pare si inizi ad agire su un doppio binario, come stanno facendo gli Stati Uniti, da un po’ di tempo a questa parte. Da un lato c’è la linea dura, quella che dal 24 febbraio ha insistito per il sostegno militare a Kiev e l’interruzione di ogni relazione con la Russia. Dall’altro, la convenienza della moderazione che probabilmente è stata sempre nell’ombra, non percepita, ma che ora comincia a farsi strada con la forza del realismo.
Anche in seguito ai frammenti di missili caduti in Polonia, sul territorio della Nato, gli USA sono stati fin dalle prime ore più cauti, stemperando i toni e parlando di “verifiche necessarie”, prima di un giudizio conclusivo.
D’altronde, non è la prima volta che i funzionari e i militari USA adottano questa strategia comunicativa.
Mark Milley, il capo di stato maggiore congiunto statunitense, ossia una delle tre figure al comando delle forze armate americane, è stato il primo alto ufficiale dei Paesi Nato ad ammettere la possibilità di uno stallo a tempo indefinito delle operazioni belliche. “Deve esserci un riconoscimento reciproco (tra Russia e Ucraina) del fatto che la vittoria nel senso proprio del termine probabilmente non è ottenibile con mezzi militari e quindi bisogna guardare ad altri metodi”, ha dichiarato Milley all’Economic club di New York, organizzazione senza scopo di lucro e apartitica dedita allo studio di questioni sociali, economiche e politiche.
Difficile pensare che le dichiarazioni di un ufficiale di quel livello siano improvvisate.
Al contrario, ne dobbiamo trarre la conclusione che i vertici militari del principale alleato di Kiev, nonché leader della Nato, intravedono la necessità di trovare una soluzione diversa dalla guerra.
Ma allora, fino a quando, continuare a parlare di guerra e di distruzione?
Speriamo ancora e solo per un brevissimo lasso di tempo.
Dopo di che, la pace!
Una pace giusta, sentita, che non umili nessuno e che non lasci strascichi o risentimenti, premesse di nuove guerre.
Gino Tino