E’ domenica 10 ottobre.
All’alba, come sempre, tutti in pullman per raggiungere la Certosa di San Lorenzo, a Padula, in provincia di Salerno, nel Vallo di Diano: prima Certosa ad essere sorta in Campania, ancor prima di quella di San Martino a Napoli e di San Giacomo a Capri, la più grande della Nazione e tra le maggiori in Europa.
Tappa fortemente voluta dal Presidente in carica Michele Iannitti, non solo e non tanto per rendere omaggio a questo imponente simbolo della cristianità del sud dell’Italia, quanto per portavi l’afflato di un organismo sovranazionale come il Rotary International.
Già, Certosa di San Lorenzo e non semplicemente di Padula, come durante il viaggio ci ricordava nel suo intervento Pasquale Simonelli, se è vero che anche la pianta “a graticola” del tempio rimanda al simbolo del martirio del Santo, bruciato vivo.
Divisi in due gruppi, attenti ad evitare assembramenti e a rispettare, ove possibile, le regole anti-Covid 19, con l’ausilio di due guide locali esperte, ci siamo mossi con ammirazione negli ampi locali voluti da quei frati certosini, che professavano d’essere la incarnazione in terra degli Angeli del Signore, ovunque rappresentati nei preziosi stucchi e nelle tele che adornano il tempio. Fortemente voluto da Tommaso II Sanseverino, Conte di Marsico e Signore del Vallo di Diano, di fede angioina, che, per ingraziarsi i sovrani angioini del Regno di Napoli, fonda, nel 1306, l’importante cenobio, affidandolo all’ordine religioso francese dei Certosini, la cui casa generalizia, fondata nel 1084 da San Brunone, si trovava a Grenoble e che, per questo, non poteva non essere gradita al sovrano angioino.
Una pioggia scrosciante ci ha accolti all’ingresso, subito dopo il controllo dei green pass e della temperatura corporea. E’ piovuto talmente tanto da obbligarci a trovare riparo sotto i porticati degli ampi chiostri del complesso monumentale, mentre il freddo si faceva pungente. Ma, nonostante tutto, abbiamo con lena percorso non solo i chiostri, ma il giardino, il cortile e la chiesa di quello che è uno dei più sontuosi complessi monumentali barocchi del sud Italia, di stile inizialmente gotico.
Ci siamo mossi in religioso silenzio, quasi presenziassimo ad un rito, lungo i tranquilli chiostri, pensando a quei tantissimi silenziosi frati che predicavano il lavoro e la contemplazione e che li percorrevano ogni giorno, in lungo e in largo; nella biblioteca, con il pavimento ricoperto da mattonelle in ceramica di Vietri sul Mare; nella cappella, decorata con preziosi marmi; nella grande cucina, arredata con sfolgoranti ceramiche dalla tonalità giallo-verde; nelle cantine, ricche di enormi botti; nelle lavanderie e nei campi limitrofi, dove erano coltivati i frutti della terra per il sostentamento dei monaci, oltre che per la commercializzazione con l’esterno. Ci siamo persino commossi nel Chiostro del Cimitero antico, davanti a quell’unica croce in pietra ai piedi della quale venivano sepolti i frati nella nuda terra, avvolti solo nel sudario, senza indicazione dei nomi. Perché gli Angeli che godono della visione beatifica di Dio non ne hanno bisogno.
Confesso d’essere stato impressionato dalla raffinatezza stilistica della grande scala elicoidale in pietra, della metà del quattrocento, che conduce alla biblioteca. Sul timpano del portale d’entrata campeggia la scritta: “Da sapienti occasionem et addetur ei sapientia” (Offri al saggio l’occasione e la sua sapienza crescerà). Qui, “l’occasione” era rappresentata dai circa ventimila volumi custoditi, almeno fino ai furti avvenuti immediatamente dopo il restauro del Regno borbonico del 1811.
Confesso, pure, la mia grande emozione ai piedi del monumentale scalone ellittico in pietra di Padula, sul lato estremo occidentale del complesso, risalente all’ultimo quarto del Settecento, che mi riportava alla memoria il grande scalone d’ingresso della Reggia di Caserta. Convinzione suffragata, poi, dalle parole della nostra guida cortese, quando ci riferiva che l’opera fosse frutto di quel Gaetano Barba, architetto allievo di Luigi Vanvitelli, che operò dagli anni settanta del Settecento in Certosa.
Pienamente soddisfatti della visita all’importante cenobio meridionale, ci incamminiamo verso il pullman per raggiungere la “Locanda dei Trecento”, posta su una collina dalla quale il nostro sguardo ancora una volta godeva di una visione “a volo d’uccello” della Certosa di San Lorenzo. Qui ammiriamo il “Sacrario dei Trecento”, edificio a pianta circolare posto accanto alla locanda, nella Chiesa della Santissima Annunziata, ove sono custoditi i resti di magna pars dei trecento soldati della sfortunata spedizione di Sapri.
La storia di Carlo Pisacane e dei suoi soldati fu violenta. Sbarcati a Sapri, non trovarono alcun patriota ad attenderli e nessun appoggio da parte della popolazione locale che, aizzata dalla guardia urbana che li fece scambiare per una banda di briganti, li trucidò tutti, barbaramente.
Una storia che, almeno per me, è simile a tante altre e occasione di riflessione sui moti risorgimentali, caratterizzati da una scollatura tra cultura unitaria, riscontrabile presso la borghesia meridionale, progressista, attenta agli interessi dei mercati europei, e le plebi del Sud, la cui ignoranza – tra virgolette – fu anche scudo protettivo di quel fatalismo di antichissima origine, che avrebbe trovato, nel volgere di pochi anni, nel Verismo la sua massima rappresentazione in chiave letteraria. Se la strage dei trecento patrioti vi fu è perché mancò, come in altri simili episodi, quella che io definirei una “Via meridionale della libertà”, con il pieno convincimento e coinvolgimento del popolo sovrano.
Ho pensato, a questo proposito, sulla mesta strada del ritorno, che a nulla sia valsa l’analisi di Vincenzo Cuoco sul fallimento della rivoluzione napoletana del 1799.
Attilio Costarella