Ho ritenuto opportuno e utile, ai fini di una possibile discussione rotariana, riprendere un articolo che tempo addietro ho pubblicato sul nostro giornalino e poi raccolto in un libro. Ricordo di averlo scritto sull’onda emotiva di eventi legati all’annosa questione del testamento biologico e del fine vita.
L’argomento è ritornato di attualità perché il Sì al suicidio assistito pronunciato dal tribunale di Ancona su istanza del Sig. Mario, ha riaperto la discussione. Ecco i fatti: Mario, 43 anni, ex autista di camion, paralizzato dalla testa ai piedi, può muovere solo il mignolo della mano destra, vive così da 11 anni a causa di un’incidente d’auto. Egli dice: “la mia esistenza di dignitoso non ha nulla, sono stanco, voglio essere libero, voglio decidere del mio fine vita”. Era pronto a partire per la Svizzera, dove il suicidio assistito è legale in quattro cliniche – Lugano, Basilea, Zurigo, Berna – e dove ogni anno circa 40 italiani vanno a morire, ma ha deciso all’ultimo momento di rimanere in Italia e battersi per rendere operativa la legge disciplinata dalla Corte Costituzionale nella sentenza Coppato/Di Fabio del 2019.
Su ordine del Tribunale di Ancona il Tribunale Etico della Regione Marche ha accertato la sussistenza dei quattro parametri dettati dalla Consulta e cioè: 1°) E’ tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali; 2°) E’ affetto da una patologia irreversibile, farcita di sofferenze fisiche e psichiche; 3°) E’ pienamente capace di assumere decisioni libere e consapevoli; 4°) Non è sua intenzione di avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda.
In conclusione è libero di decidere di morire a casa sua assistito da familiari e amici schiacciando con i denti il pulsante che attiva il dispositivo per la somministrazione del farmaco letale. L’equipe di valutazione è composta da un medico palliativista, un neurologo esperto della patologia dalla quale è affetto il paziente, uno psichiatra, uno psicologo, un esperto di trattamenti vitali di sostegno, un infermiere esperto di cure domiciliari integrate.
Sulle modalità di esecuzione del suicidio sono sorte molte perplessità: a) con quale criterio è stato scelto il Tiopentale nella dose di 20 gr.?; b) perché non la sedazione preventiva? Se la dose di Tiopentale non è efficace a quel dosaggio, che altro usare?; e così altri dubbi specie sulla possibilità di poter intervenire per portare a compimento il suicidio, ma così non diventa eutanasia?
In tutta questa querelle si inserisce la Chiesa che ritorna sull’ipotesi delle terapie palliative che contempla anche la sospensione di tutti quei trattamenti che il paziente giudica sproporzionati: eutanasia passiva?
Lascio a chi legge tutti questi interrogativi che sono ampiamente ricavabili dall’articolo che ripropongo, e invito ad un dibattito su questo importante tema del fine vita che continua a suscitare polemiche.
La recente sentenza della Cassazione che autorizza a sospendere l’alimentazione e l’idratazione a Eluana Englaro, ripropone in maniera drammatica il problema del come decidere sulla fine della vita. In Parlamento sono depositati diversi disegni di legge, tutti intesi a rendere finalmente efficace il cosiddetto “testamento Biologico” che più esatto sarebbe meglio chiamare “dichiarazioni anticipate di trattamento di fine vita”. Credo che il ritardo nell’applicazione di una normativa che potrebbe fare chiarezza, almeno in molti casi, su questo drammatico momento dell’esistere, sia dovuto all’imbarazzo del legislatore su come considerare la volontà del paziente. Dato per scontato che bisogna tenere in debito conto l’art.13 della Costituzione secondo il quale “la libertà personale è inviolabile….non è ammessa alcuna forma di restrizione della libertà personale” e l’art. 32 che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della comunità…nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, nell’accettare la codificazione di una norma così delicata qual è appunto il trattamento decisionale sulla fine della vita, vengono fuori altri interrogativi: e se il paziente ha espresso le dichiarazioni anticipate in un momento di stato emotivo perché coinvolto in prima persona nel dramma di chi vive una condizione di vita vegetativa o di sofferenza estrema?; e se avesse voluto cambiare le proprie volontà, nel corso della vita, ma circostanze varie non lo hanno consentito?; nello stato vegetativo permanente, condizione in cui con certezza scientifica il paziente è decerebrato e pertanto non soffre, che senso ha eliminare l’alimentazione e l’idratazione?; sono questi atti fisiologici da considerarsi atti medici e quindi accanimento terapeutico e rendere giustificabile l’interruzione o sono atti di pura alimentazione e interromperli equivale a praticare una eutanasia?; è lecito considerare una persona in stato vegetativo permanente oggetto, del quale si può disporre semplicemente, sulla base di una dichiarazione rilasciata in pieno benessere mentale, o è un soggetto con una dignità non graduabile né quantificabile che non è legata solo alla capacità di relazionare, ma a tutto l’individuo, nella sua interezza e quindi rimane presente durante tutto l’arco della vita?.
La stessa Chiesa attraverso le dichiarazioni formulate già da Pio XII nel 1956, ha esplicitamente affermato che “..di fronte al malato sofferente la privazione delle facoltà superiori provocata dai narcotici è compatibile con lo Spirito del Vangelo, che è lecito l’uso dei narcotici per i morenti o malati in pericolo di morte e che…non esiste un obbligo morale generale di rifiutare l’analgesia e di accettare il dolore per Spirito di fede”.
Eliminare il dolore quindi è lecito, anche se l’uso di sostanze palliative potrebbe accorciare la vita (Carta degli Operatori Sanitari – Città del Vaticano N°123-1994). Importante, sottolinea ancora Pio XII, nelle citate dichiarazioni in risposta a precisi quesiti postigli dalla Soc. Ital. di Anestesiologia, “è fare in modo che tra l’uso dei narcotici e l’abbreviamento della vita non esista alcun nesso causale diretto, posto per volontà degli interessati, e se, al contrario, la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento del dolore, dall’altro, l’abbreviamento della vita, è lecito; bisogna ancor vedere se tra i due effetti vi è proporzione ragionevole e se i vantaggi dell’uno compensano gli inconvenienti dell’altro.” Il documento chiarisce, in sintesi, che bisogna escludere, in ogni caso, ogni forma di eutanasia diretta.
Ritornando ad Eluana Englaro, noi ci troviamo di fronte ad un caso dove non esiste dolore perché non c’è coscienza, quindi eliminarla sospendendo l’alimentazione e l’idratazione, che senso ha? Nella sua condizione non vengono usati né farmaci (accanimento terapeutico) né analgesici (terapia del dolore), quindi? La sua volontà, ammesso che l’abbia espressa è solo basata (non esiste infatti dichiarazione scritta) su una frase detta ad amici in un momento di drammatico sconforto per le condizioni di una persona cara. Vedere il corpo di una persona, deturpato e trasfigurato dal male, spinge chiunque ad umana compassione e viene spontaneo di dire “è meglio che muoia”, ma se la morte non viene in maniera spontanea e solo una parte del nostro corpo è morta (il cervello), anche se la più nobile perché elabora il pensiero e conserva la memoria, perché privare con atto cosciente anche le altre parti del corpo del vivere? Chi si può assumere la responsabilità morale e scientifica di dire che morto il cervello è morto il corpo? Perché farlo sparire, non vedere più gli occhi della persona amata, i lineamenti del suo volto, sentire il calore del suo corpo? Forse la lunga giacenza a letto ha trasformato e deturpato i lineamenti, per cui non è più riconoscibile ciò che abbiamo amato? Questo corpo mi è diventato estraneo? E’ un interrogativo drammatico: il testamento biologico o le dichiarazioni anticipate di fine vita possono solo in parte fare chiarezza, non fosse altro per evitare problemi morali e giuridici ai medici o alle altre strutture consenzienti ad attuarle. Non bisogna tenere sottoconto che l’applicazione per legge del testamento biologico potrebbe creare difficoltà a quelle istituzioni sanitarie che si ispirano a principi etici in contrapposizione con le suddette dichiarazioni e quindi che quelle direttive non potranno essere attuate in quel luogo.
Nonostante questi interrogativi che ci siamo posti, e che non sono esaustivi delle problematiche esistenti sui casi di stato vegetativo permanente, è assolutamente necessario che in Parlamento venga approvata una legge che finalmente regoli le tante proposte pervenute e metta un punto fermo sulla questione.
Pasquale Simonelli