La solidarietà verso Israele e l’azione di contrasto militare ad Hamas come autodifesa sono atti dovuti ed importanti della Comunità internazionale nei confronti di un membro aggredito brutalmente.
Bisogna distinguere, tuttavia, l’organizzazione terroristica di Hamas, il cui consenso è diffuso solo in una minoranza di fanatici, dalla maggioranza del popolo palestinese, e in particolare degli abitanti di Gaza city, civili inermi che da sedici anni vivono in una prigione a cielo aperto. Il diritto ad esistere di Israele è incontrovertibile, come il diritto a sopravvivere degli arabi palestinesi.
Il conflitto in corso ha punti in comune, ma anche profonde diversità con le guerre precedenti. Per le possibili implicazioni internazionali è la guerra del 1948 quella che più si avvicina allo scontro attuale. E’ da quest’anno che Israele esiste come Stato sovrano, ma andiamo agli antefatti storici, che costituiscono la causa dei rapporti ostici tra Israele e la Palestina.
Le basi teoriche della creazione di uno Stato ebraico erano state poste fin dal 1897, data del primo congresso sionistico di Basilea, ma fu durante la prima guerra mondiale, venuto meno il dominio ottomano sulla regione, che l’aspirazione degli ebrei a costituire un “focolare nazionale” in Palestina venne riconosciuta dagli inglesi con la “dichiarazione Balfour” (1917). Nel 1922 essa venne sancita come diritto dalla Società delle Nazioni, che attribuì alla Gran Bretagna il mandato di renderlo operante.
La promessa fatta dall’Inghilterra nel 1916 agli arabi di Palestina di riconoscere la loro indipendenza in cambio di un’attiva partecipazione alla guerra, contrastava però con la “dichiarazione Balfour”. Tale contrasto fu aggravato negli anni seguenti dall’atteggiamento oscillante degli inglesi, i quali da una parte promuovevano la creazione di istituzioni rappresentative per gli arabi e dall’altra favorivano l’immigrazione degli ebrei.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale l’Inghilterra cercò di avvicinarsi alle richieste arabe con una interpretazione restrittiva della dichiarazione Balfour, ma il dopoguerra diede grande forza al
desiderio degli ebrei di costituire un proprio Stato, anche come mezzo per riprendersi dal terribile colpo inferto dal nazismo.
L’urto fra arabi ed ebrei si fece allora drammatico.
Londra decise di affidare la ricerca di una soluzione all’ONU, che nel 1947 propose la divisione della Palestina in due Stati e il mantenimento di un’amministrazione fiduciaria a Gerusalemme. Gli ebrei accettarono, ma gli arabi si ribellarono, scatenando agitazioni e tumulti.
Nel maggio 1948 cessò il mandato britannico e contemporaneamente l’Agenzia ebraica proclamò lo Stato d’Israele, nominando presidente del consiglio David Ben Gurion.
Gli Stati arabi risposero invadendo la Palestina, ma le forze armate israeliane riuscirono a respingerli.
E d’ora in poi, tra i due popoli, si registra un conflitto progressivo, negazione di ogni più semplice accordo di pace, tranne brevi periodi di pacifica convivenza apparente.
Nemmeno l’elezione del moderato negoziatore Yassir Arafat, eletto presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nel 1969, insignito del premio Nobel per la pace, era riuscita a migliorare i rapporti tra ebrei e palestinesi. Accusato ingiustamente da Israele e da larga parte della Comunità internazionale di non porre freno al dilagare degli atti terroristici dell’estremismo palestinese, moriva misteriosamente nel novembre 2004.
Non mi soffermo sugli eventi della guerra in corso, ormai a tutti noti.
Solo un accenno alla convocazione della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che accoglie il ricorso del Sudafrica e dà indicazioni ad Israele per tutelare i civili palestinesi, accusando Netanyahu di aver violato la Convenzione sul Genocidio del 1948, con le sue azioni militari condotte nella Striscia di Gaza, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Accusa respinta dal presidente israeliano, definita falsa e oltraggiosa, convinto che il suo esercito stia già rispettando tutte le leggi del diritto internazionale e le convenzioni umanitarie.
Ma i fatti parlano da soli, quando immagini apocalittiche documentano la distruzione di ospedali, scuole, campi profughi e interi quartieri.
“Sul campo profughi di Jabalya, temiamo seriamente che si tratti di attacchi aerei sproporzionati che potrebbero equivalere a crimini di guerra, per l’elevato numero di vittime civili”, ha scritto l’Agenzia Onu su X. E non è la sola testimonianza in tal senso.
Purtroppo, i reiterati appelli alla pace provenienti da tanti Stati e Organizzazioni umanitarie, ed “in primis” da papa Francesco, senza dimenticare la insistente mediazione dell’ONU, che propone come soluzione la costituzione di DUE STATI, sono caduti finora nel vuoto.
Il presidente Netanyahu dichiara che la guerra, sempre più spietata, continuerà fino alla vittoria finale, insensibile alle sofferenze indescrivibili e alla miseria estrema in cui versa il popolo palestinese, come la stessa popolazione israeliana, con tanti ostaggi ancora prigionieri d’ambo le parti.
Il terribile attacco terroristico di Hamas e la violenta reazione militare d’Israele sono eventi diversi tra loro, tuttavia presentano un dato comune: nella difficoltà di colpire gli uomini armati, ad essere colpiti, in prevalenza, sono esseri umani inermi, innocenti, come vecchi, donne e bambini.
La guerra è una sconfitta per tutti: la pace non si consegue con le armi, ossia con la vittoria militare, ma per le vie diplomatiche.
DUE POPOLI DUE STATI: è l’unica soluzione possibile per una pace giusta e duratura.
Gino Tino