Nell’epoca attuale in cui un gran numero di persone scrive l’autobiografia , un po’ per ricordare il proprio passato e un po’ con l’idea che esso possa essere d’interesse per gli altri, a me è venuta piuttosto l’idea di raccontare l’esperienza professionale fatta in più di cinquanta anni di professione medica, non con lo scopo di scrivere un curriculum vitae ma con quello di riflettere sui contatti umani avuti e sull’influenza prodotta sul proprio modo di pensare e vivere. So di rivolgermi anche a dei lettori che hanno svolto e svolgono attività medica in varie specialità, ma credo che ognuno abbia fatto esperienze diverse in base alle attività ed agli ambienti in cui si sono svolti. D’altra parte credo che sia anche interessante per il Rotary conoscere le esperienze di vita vissuta dei propri associati ed i comportamenti di questi ultimi e delle persone che con essi hanno avuto contatti da un punto di vista professionale e umano, cosa che al giorno d’oggi è molto trascurata.
Ho avuto modo di esercitare la professione medica, prevalentemente clinica, in molti ambiti medicina di famiglia, ambiente militare, istituto previdenziale, specialistica ospedaliera, privata ed ho integrato, anche se in maniera parziale, l’esperienza di ogni attività con le altre, potendo così capire la forma mentis e comportamentale tipiche dei vari settori in cui ho operato.
L’esperienza la si fa sul campo. Lo capii appena iniziata la pratica medica, quando mi resi conto che dovevo apprendere anche le cose più banali, come praticare la puntura endovenosa, rubando la metodica agli infermieri. Ma tutto il mio apprendimento pratico, quasi nullo negli anni universitari, si è tradotto nell’osservazione dei colleghi più anziani ed esperti, che perlopiù non regalavano niente, tranne pochi.
Il mio primo ricordo da medico è quello di quando ancora volontario in Cardiologia all’ospedale di Caserta fui mandato dal mio primario medico dell’epoca, prof.Tritto, a fare una visita a casa di una persona in sua vece. Io non avevo mai visitato singolarmente nessuno, per cui fu un’esperienza in cui cercai di assumere un contegno ed un comportamento che ritenevo professionali, ma non so che cosa trasmisi al paziente. Comunque me la cavai senza infamia e ciò mi diede coraggio per il futuro.
Nel 1973 fui chiamato a svolgere il servizio militare di leva come ufficiale medico. Feci conoscenza di una gioventù costretta a fare il servizio di leva che , per gran parte, cercava in tutti i modi di sottrarsi alle incombenze della naia. C’era una popolazione di vario genere, dal bulletto al ragazzo che si metteva a piangere i primi giorni di servizio pensando alla mamma. Ad agosto mi ritrovai ad affrontare l’emergenza colera, che mi costrinse a fare circa 400 vaccinazioni in una giornata, cioè tutto il battaglione dove ero accasermato, con siringhe di vetro da bollire, aghi riutilizzati, a volte con punta ad uncino, e ragazzi baldanzosi che svenivano alle punture sul torace, tanto da costringermi a farle a piè di letto o a correre appresso ai renitenti (no- vax ante litteram). Ben diversamente si comportarono i giovani alcuni anni dopo, epoca in cui facevo il consulente cardiologo presso l’ospedale militare, perchè , non avendo alternative lavorative, cercavano in tutti i modi di iniziare la carriera militare. Così anche alcuni militari di carriera , avanti negli anni e ben in carne , che pur soffrendo di patologie varie, per es.un pregresso infarto miocardico, cercavano di farsi dichiarare idonei al servizio in Kossovo, in Iraq, in Afganistan, cioè alle missioni all’estero per avere il sostanzioso contributo economico della NATO. E’ ovvio che si trattava di una minoranza. E colgo l’occasione per dichiarare il mio rispetto e l’ammirazione per i valorosi giovani in ottime condizioni di salute che purtroppo in queste missioni hanno perso l’integrità fisica ed anche la vita.
La mia prima esperienza medica l’ho fatta come medico convenzionato. All’epoca c’erano gli enti mutualistici, fra cui la Coldiretti da cui mi vennero i primi clienti e per cui ricevetti dopo qualche tempo un assegno di Lire 250 (sic!). La clientela era piuttosto scarsa e formata da contadini che abitavano in zone periferiche di Caserta, persone molto educate e a volte riconoscenti, tanto che come ringraziamento della mia opera professionale ebbi qualche gallo vivo (che creò non pochi problemi in famiglia), uova fresche e verdure varie. Indubbiamente erano altri tempi, per cui non v’era ancora una prevenzione ostile nei confronti dei medici. Anzi alcuni di loro mi contattano ancora oggi.
Altra esperienza dei primi tempi dell’attività medica convenzionata generica all’epoca degli enti mutualistici fu la fame di farmaci degli assistiti ENPAS, che volevano prescrizioni a tutto spiano di preparati tipo Calcidon e Soluzione Schoum, che poi sono scomparsi dal prontuario e dalla prescrivibilità. Inoltre bisognava stare molto attenti alle richieste di certificati di malattia, perché spesso e volentieri ci si doveva basare sulle dichiarazioni dei sedicenti ammalati . Erano i tempi in cui lo Stato dava di tutto e di più (o perlomeno così faceva illudere), salvo poi ad incolpare i medici di quanto nel sistema sanitario non andava bene.
Nell’attività di medicina generale ed ospedaliera vissi il periodo, che forse c’è ancora sebbene molto ridotto, dell’abbondanza delle esenzioni dai ticket sanitari, per cui il 90% della popolazione (perlomeno quella con cui ebbi a che fare io) si rivelò indigente ed invalida, con un profluvio di richieste di prescrizioni farmaceutiche e di esami specialistici, che portarono nel tempo al ben noto fenomeno di spreco di farmaci e di allungamento delle liste di attesa.
Nel periodo di attività mista generica ed ospedaliera ho avuto modo di integrare le esperienze dell’una e dell’altra, per cui ho avuto la possibilità di capire la mentalità dei pazienti nelle due situazioni sanitarie. Indubbiamente il contatto personale avuto con i pazienti della medicina generica è stato molto più coinvolgente che con i pazienti ospedalieri. L’ospedale o la casa di cura è una struttura impersonale protettiva per il medico, o perlomeno una volta lo era, con le sue regole e rapporti medico-paziente più freddi; nel rapporto ambulatoriale medico e paziente sono a livello quasi paritario e la responsabilità medica si avverte sia in senso positivo che negativo. Tuttavia nell’uno e nell’altro caso è impagabile la soddisfazione di sentirsi apprezzati per come si è riusciti ad aiutare il paziente a risolvere i propri problemi sanitari.
Durante i primi anni dell’esperienza ospedaliera ho dovuto affrontare anche situazioni per me nuove e difficili come una sutura in bocca ad un bambino o su una episiotomia, una visita a un neonato o a trovarmi in situazioni complicate come una lite fra una coppia di coniugi molto giovani (con la donna ferita al volto), lite che in pronto soccorso si concluse con baci ed abbracci fra i due con un codazzo di famiglie bellicose, e che per il tipo di lesione molto delicata mi costrinse a chiedere il supporto di un chirurgo esperto. Devo dire che l’esperienza ospedaliera è stata molto utile a livello ambulatoriale perchè, ad esempio, mi ha consentito di visitare bambini senza troppo timore, prima di affidarli ai pediatri. Così come l’attività di medico di famiglia mi ha permesso di capire meglio il passaggio delle consegne di un paziente dal livello ospedaliero a quello territoriale.
Ad un certo punto della mia professione dovetti scegliere tra l’attività ospedaliera e quella di medico di famiglia e scelsi la prima; mi dovetti integrare nella veste istituzionale per cui i contatti con “l’utenza” si dimensionarono a quell’ambiente. Ovviamente in tale veste è più difficile seguire le singole persone, salvo che nelle visite di controllo, ma anche così le personalità dei singoli si sono manifestate con evidenza, ad esempio nei rapporti fra i pazienti ricoverati ed i loro familiari, a volte molto affettuosi, a volte indifferenti o burrascosi. Cessata l’attività ospedaliera ritornai all’attività ambulatoriale, anche se in una struttura sanitaria, dove mi sono reso conto della difficoltà di molte persone di controllare il proprio stato di salute , espressione di un disagio economico purtroppo abbastanza diffuso attualmente nella popolazione. In tali circostanze mi capita sovente di essere sia il professionista, al quale il paziente si rivolge per ottenere una risposta ai suoi problemi sanitari, sia il confidente a cui spesso e volentieri si espongono anche i problemi della vita quotidiana e familiare, come un amico col quale ci si può anche sfogare un po’. Questo aiuta a far sentire meglio il paziente, facendolo parlare, rispondendo se possibile alle sue domande ed evitando di farlo sentire un soggetto anonimo del quale ci si dimentica appena cessata la consulenza, perché questo è quello che vorrebbe ciascuno di noi se si trovasse dall’altra parte della scrivania.
Spero che queste note di vita vissuta non vi abbiano annoiato. Se così è stato “credete che non s’è fatto apposta”.
Francesco Vitale